SARTORIA TIRELLI
(informazioni tratte dal sito dell'azienda)
La sartoria Tirelli è nata nel
1964, ad essa si deve la realizzazione di costumi per film e spettacoli
famosissimi, tra cui i costumi di quasi tutti i film di Luchino Visconti
(disegnati da Piero Tosi). Ha collaborato alla realizzazione dei costumi di
"Casanova" di Federico Fellini, costumista Danilo Donati il quale
vinse l'Oscar per i migliori costumi nel 1973/74, di "Momenti di
gloria" del regista Hugh Hudson, costumista Milena Canonero premio Oscar
nel 1982, i costumi di "Amadeus" di Milos Forman, per il quale il
disegnatore Teodor Pistek guadagnò un premio Oscar nel 1985, i costumi per
"Cyrano de Bergerac" disegnati da Franca Squarciapino, premio Oscar
1991, "L'età dell'innocenza" che fruttò un Oscar alla costumista
Gabriella Pescucci nel 1994 e “Marie Antoinette” che fece vincere il premio
Oscar alla costumista Milena Canonero nel 2007 e numerose sono state le
nomination e tanti altri i premi italiani e stranieri, assegnati a vari
costumisti ai quali la sartoria Tirelli ha dato il suo contributo realizzativo.
Dopo la scomparsa del suo fondatore Umberto Tirelli, continua attraverso i suoi
amici-eredi la sua prestigiosa attività sotto la guida di Dino Trappetti.
La Tirelli Costumi ha
realizzato i costumi per "Il paziente inglese" premio Oscar per la
costumista Ann Roth nel 1997, “La leggenda del pianista sull’oceano” David di
Donatello per il costumista Maurizio Millenotti e dello stesso “Passion, la
passione di Cristo” e “N – Io e Napoleone”, “Ritorno a Cold Mountain” disegnati
da Ann Roth, “I Fratelli Grimm e l’incantevole Strega” di Gabriella Pescucci,
“Il Mestiere delle Armi” costumi di Francesca Sartori. Nonché i costumi per
“Nuovo Mondo” disegnati da Mariano Tufano, “Silk” costumi di Carlo Poggioli,
“Primo Carnera” e “Barbarossa” costumi di Massimo Cantini Parrini, “I Viceré” e
“The Wolfman” con i costumi di Milena Canonero.
Inoltre ha collaborato per i
film "Titanic" premio Oscar nel 1998 per la costumista Deborah Scott,
"Elizabeth" costumista Alex Byrne, “Moulin Rouge” di Baz Luhrman, “La
fabbrica di cioccolato” di Gabriella Pescucci, “The Duchess” costumi di Michael
O’Connor premio Oscar nel 2009, “Robin Hood” costumi di Janty Yates e “Alice in
Wonderland” costumi di Coleen Atwood.
Di uguale importanza sono poi,
i lavori teatrali realizzati da talenti emergenti come Massimo Gasparon e
Stefano Poda.
UMBERTO TIRELLI
Umberto Tirelli era un
appassionato collezionista di abiti antichi, che inizialmente ricercava e
acquistava a scopo di studio nelle soffitte delle famiglie aristocratiche e
sulle bancarelle dei mercati delle pulci di mezzo mondo, Tirelli ha costruito
pazientemente una imponente collezione che conta oggi più di 15.000 capi
autentici ed è sicuramente una delle più importanti collezioni private del
mondo nel campo dell'abbigliamento.
Umberto Tirelli non si è
limitato a collezionare abiti storici, ma ha sempre cercato di farli vivere,
mettendoli a disposizione dei costumisti con cui collaborava e numerose sono le
donazioni fatte ai più prestigiosi Musei del mondo (Metropolitan Museum di N.Y;
Tokyo Institute of Costume; Kyoto Institute of Costume e Le musée des Arts
décoratifs a Parigi). La Donazione più considerevole (circa 300 costumi)
costituisce il nucleo fondamentale della Galleria del Costume del Museo degli
Argenti di Palazzo Pitti a Firenze. Con lo stesso proposito la Sartoria Tirelli
ha organizzato e tutt’ora organizza mostre utilizzando sia i costumi autentici
appartenenti alla propria collezione sia quelli realizzati per i film e per le
opere teatrali di maggior successo, come la recente mostra “L’Atelier degli
Oscar” organizzata a Gorizia nella cornice storica di Palazzo Attems
Petzenstein che ha riscontrato un grande successo di pubblico.
Umberto Tirelli apre la sua
sartoria nel novembre 1964 con due macchine da cucire, cinque sarte, una
modista, una segretaria e un autista-magazziniere.
Dopo il primo spettacolo (una
"Tosca" disegnata da Anna Anni e diretta da Mauro Bolognini per il
Teatro dell'Opera di Roma), nel primo anno di attività la sartoria Tirelli
realizza i costumi per tre grandi spettacoli di prosa: "Tre sorelle"
e il "Il gioco delle parti" disegnati da Pier Luigi Pizzi per la
regia di Giorgio De Lullo, e il "Giardino dei ciliegi" disegnati da
Ferdinando Scarfiotti per la regia di Luchino Visconti.
Da allora la sartoria Tirelli
non ha fatto che crescere. La sua attività si è sviluppata principalmente in
due direzioni diverse e complementari: quella tracciata dalla carriera di Pier
Luigi Pizzi, e costellata di costumi concepiti per il teatro di prosa e
d'opera, prevalentemente (ma non solo) all'insegna dell'invenzione e della
fantasia; e quella tracciata dalla carriera di Piero Tosi, che si è dedicato di
preferenza (ma non solo) al cinema, nella ricostruzione filologica.
Il lavoro di Tosi ha poi
influenzato in modo determinante quello di Gabriella Pescucci cresciuta
professionalmente sotto la guida di Tosi e Tirelli e arrivata nel 1994 a
vincere un Oscar per “L'età dell'innocenza", Maurizio Millenotti, anche
l'apporto di Vera Marzot e Maurizio Monteverde è stato fondamentale per la
costruzione del prestigio della sartoria.
Numerosi sono i costumisti che
sono cresciuti nella "Bottega Tirelli" e alcuni di loro hanno
raggiunto prestigio internazionale, come Maurizio Millenotti (due nomination
per l'Oscar e numerosi premi italiani), Giovanna Buzzi, Alberto Verso, Carlo
Diappi, Carlo Poggioli, Flora Brancatella, Alberto Spiazzi, Silvia Aymonino,
Alessandro Lai, Mariano Tufano e Massimo Cantini Parrini.
E numerosi sono i costumisti
stranieri che hanno frequentato e tutt’ora frequentano la Tirelli Costumi, come
Hugo De Ana (regista e costumista dei suoi spettacoli), Sandy Powell, Claudie
Gastine, Ann Roth, Penny Rose, Yvonne Sassinot de Nesle, Francoise Tournafond,
Olga Berluti, Deborah Scott, Jean Philippe Abril, Janty Yates e tanti altri.
Come si può spiegare il fatto
che Umberto Tirelli non sia rimasto coi piedi piantati fra i campi di
Gualtieri, dove era nato nel 1928, e abbia scelto invece di vestire Medea e
Ludwig di Baviera? Forse la curiosità esistenziale della sua famiglia, forse le
febbri intellettuali dell’adolescenza nella bassa padana, forse la vicinanza
con la snobbissima Parma, forse soltanto il caso nelle sembianze di un sarto
suo compaesano, Luigi Bigi, ambasciatore della moda francese. Bigi, che lo
vedeva lavorare con colla e forbici, rovistare nelle soffitte, recuperare
vecchi stracci per creare costumi e mascheramenti, diceva: “Tu hai troppo amore
per queste cose. Finirai sarto”.
Il suo destino lo ha portato a
vestire non gli uomini, ma le loro rappresentazioni, non la realtà ma la scena,
non il presente, ma un passato di crinoline ed “inquartate”.
Il primo posto di lavoro è
fattorino in un negozio di stoffe a Milano. “Non avere fretta - diceva la madre
- forse si libera un negozio sotto i portici e potrai aprire una bella
merceria”. Anni dopo, anche quando Umberto sarà arrivato e felice nella sua
bella sartoria teatrale, mamma Dirce continuerà a dire: “Va là va là. Sares mei
un bel negozi a ca’ tua”. A Milano gli propongono di entrare alla Sartoria
Finzi, costumi per il teatro. Lì c’è il primo incontro con Luchino Visconti,
già una leggenda per il suo rigore nelle ricostruzioni di ambienti e abiti: per
lui i personaggi dovevano essere “vivi, veri, vestiti e non costumati”. La
sartoria nel 1955 realizza per Visconti parte dei costumi della storica
Traviata, quella con le scarpe di Violetta lanciate verso il proscenio per
liberare i piedi stanchi dal troppo ballo.
Quella di Tirelli per il
regista fu un’immediata cotta artistica che, poco più in là, si trasformerà
nell’amicizia determinante nella sua vita e nel suo lavoro. Quella stagione
milanese fu prodiga di intelligenti e generose amicizie: Franco Zeffirelli che
dirigeva alla Scala, Piero Tosi che creava i costumi per la Sonnambula, Beppe
Modenese che divideva con lui le due camere, cucina e bagno.
Sono Zeffirelli e Tosi che lo
trascinano a Roma e gli trovano lavoro alla Safas, sartoria teatrale di alta
artigianalità ma bisognosa di nuova linfa per l’età avanzata delle
proprietarie. Se a Milano si era fatto le ossa sui materiali, qui Tirelli
impara la meticolosità del cucito, tutto a mano: una manica va piombata, va
girata, non può essere cucita così alla buona sperando che la distanza dalla
platea al palcoscenico mimetizzi. Impara che la cultura non riguarda solo il
costumista, ma anche il sarto teatrale, che per il costumista è qualcosa di più
importante del capomastro per l’architetto. Cerca nelle biblioteche, visita i
musei, fa incetta di manuali, impara come nel Settecento si tagliava
un’inquartata e come una pince di due millimetri e mezzo può dare una linea
diversa ad un vestito. Spesso in nome del rigore storico si consumano
sacrifici. A Claudia Cardinale per il ballo del Gattopardo il duo Tosi/Tirelli
stringe la vita da 68 a 53 centimetri con un busto diabolico. Le riprese del
ballo durarono un mese: la Cardinale ne uscì piagata. Tosi e Visconti imbustano
anche la Callas, nella Sonnambula del 1955: pareva una follia comprimere i
fiati di una soprano, ma la Callas non fece una piega.
Quelli della Safas sono anni
magici: la televisione usciva dal pionierismo, il cinema aveva le vele al
vento, la lirica era miracolata dalle voci della Callas, della Tebaldi, di Di
Stefano e Del Monaco. Nella prosa trionfava la Compagnia dei Giovani con in
testa Romolo Valli e nasceva il Festival di Spoleto. Per Tirelli sono gli anni
degli incontri con i maestri di talento e genialità, ma capaci anche di capire,
e di insegnare senza mai montare in cattedra. In testa Luchino Visconti, che
passava interi pomeriggi in laboratorio alla Safas. Per il Gattopardo dall’inizio
del 1962 la sartoria viene monopolizzata per sette mesi e duemila costumi:
quelli di Fabrizio, Tancredi, Angelica, quattrocento toilettes da ballo e tutti
i garibaldini, le masse dei pastori e dei contadini.
Nel 1964, due anni dopo quel
faticatissimo set, Tirelli si mette in proprio. Una Tosca di Mauro Bolognini
con i costumi disegnati da Anna Anni è il primo spettacolo firmato dalla
“Sartoria Teatrale artigiana Tirelli”. Umberto Tirelli è qualcosa di più e
qualcosa di meno di un sarto teatrale, capisce che fra il sarto con forbici ago
e filo e il costumista c’è uno spazio vuoto da riempire con professionismo.
Quello è il suo mestiere: realizzatore di costumi e insieme archeologo della
moda. Una definizione che è la più in linea con sua la passione per il recupero
di abiti d’epoca e di accessori autentici: bottoni, fibbie, nastri, piume,
fusciacche, dalmatiche, passamanerie, guanti, cappellini, borsette. Anche in
questo Visconti e Tosi gli sono maestri, trascinandolo in un trovarobato che
diventa quasi una malattia: il piacere di scovare fra soffitte e bauli reperti
di moda da far resuscitare magicamente in palcoscenico.
Risultato, nove magazzini
stipati di quindicimila abiti d’epoca: il museo Tirelli. Il grosso abbraccia
cent’anni, dal 1870 al 1968. Ma l’intera raccolta traccia la storia di quattro
secoli di moda: il Cinque, il Sei e il Settecento, la Rivoluzione Francese con
le donne che buttano il corsetto e si denudano sotto camicie di batista bianca,
il primo Impero, il ritorno del busto, il romanticismo di trine, rasi, fiori e
velluti, la pomposità della moda Luigi Filippo e la volgarità del secondo
Impero, con diademi, boccoli e strascichi a non finire, l’epoca di Napoleone II
con le gonne e sottogonne della contessa di Castiglione, la linea pulita e quasi
aderente di Sissi imperatrice d’Austria che mandò in soffitta cerchi e
crinoline, fino agli anni Venti, a Chanel, ai “gran sera” di Dior, Balenciaga,
Galitzine e Capucci. Un collezionismo maniacale che lo porta a passare i fine
settimana a rovistare nei mercatini delle pulci o negli armadi dimenticati dei
palazzi patrizi, finché la fama si sparge e arrivano pezzi straordinari donati
per amicizia perché “si sa dove vanno a finire”. Le sue cose più importanti
hanno arricchito la prima mostra di moda curata da Diana Vreeland al
Metropolitan Museum di New York: “Inventive Clothes”, vent’anni di moda dal
1919 al 1939.
Filologo della moda, alleato e
spalla dei costumisti anche nella fase dell’ideazione, istintivo segugio
dell’autentico e ricercatore di materiali impossibili, tutto per dar vita a
quei “figurini” disegnati sui bozzetti di scena. Per la Medea della Callas nel
1969 usa cencio della nonna e garza sanitaria, e fa bollire buccia di limone e
ortiche per ottenere certi gialli e certi verdi, per il Mosè di Rossini del
1968 usa maglie all’uncinetto, nylon a tre strati per le mantelle, plastica
colata in calchi e invecchiata con bruciature per le corazze. Il sodalizio di
lavoro e amicizia con i costumisti è fondamentale. I suoi “santi” sono Piero
Tosi e Pier Luigi Pizzi, l’uno ricercatore documentato, l’altro inventore
fantasioso.
Agli inizi degli anni Settanta
Tirelli non ha respiro: passa dal Conformista di Bertolucci a Roma e Amarcord
di Fellini, al Tristano e Isotta su disegni di Manzù, da Truffaut a Streheler,
che gli affida la sua più amata creatura, il Giardino dei ciliegi. Sono gli
anni più intensamente cinematografici anche per Visconti, che, appena uscito
dal successo della Caduta degli dei, finisce di girare Morte a Venezia e si
appresta al monumentale Ludwig: solo per realizzare il mantello per la scena
dell’incoronazione la sartoria ci mise tre mesi. Ma amici e affetti se ne vanno
in rapida successione: muoiono Visconti, Romolo Valli, la Callas, muore la
mamma Dirce, e Tirelli si aggrappa al lavoro: Fellini, Cavani, Ronconi, Scola,
Bolognini gli offrono una positiva e felice difesa contro gli orrori della
vita.
Intervista a Umberto Tirelli
Gli anni Ottanta sono ancora
una stagione di stacanovismo. L’alleanza con i costumisti crea le “grandi
firme” che si sono fatte le ossa in sartoria: in testa Gabriella Pescucci, poi
Fiorella Mariani, Wayne Finkelman, Giuseppe Crisolini Malatesta, Francia
Squarciapino, Maurizio Millenotti, Alberto Verso e Giovanna Buzzi. Sono gli
anni della fitta collaborazione con Luca Ronconi e del sodalizio con Pierluigi
Pizzi per la lirica. L’alleanza con il cinema è più saltuaria, ma nascono
capolavori come Oci Ciornie di Michalkov e, con i costumi della Pescucci, C’era
una volta in America di Sergio Leone e La famiglia di Scola. Quel che non
arriva dall’Italia, arriva dall’Europa e dagli States e la dimensione
internazionale della sartoria Tirelli ha un’impennata. Nel 1981 la costumista
italoamericana Milena Canonero approda alla sartoria di via Pompeo Magno per il
guardaroba di Momenti di Gloria, vincerà l’Oscar e continuerà ad appoggiarsi a
Tirelli per Cotton Club e il terzo Padrino di Coppola e La mia Africa diSidney
Pollack. Sempre negli anni Ottanta Gabriella Pescucci affida ai fedelissimi
sarti di Tirelli i costumi de Il nome della rosa, Teodor Pistek quelli di
Amadeus di Milos Forman, Franca Squarciapino quelli del Cyrano de Bergerac. Le
credenziali hollywoodiane di Tirelli si moltiplicano.
Nel marzo del 1990, due dei
“suoi” film, Valmont e Il barone di Munchausen ottengono la nomination
all’Oscar. Tirelli è alla cerimonia con l’amico Dino Trappetti, colui che gli
succederà a capo della sartoria: ha taciuto a tutti che i suoi sessantadue anni
sono condannati, ha taciuto perché vuole godersi quel trionfo, ha taciuto
perché a breve andrà in scena Traviata diretta da Riccardo Muti coi costumi di
Gabriella Pescucci realizzati dalla “Sartoria Teatrale artigiana Tirelli”.
Maggio 1990, è l’ultima Traviata di Tirelli. Maggio 1955, la prima Traviata di
Visconti segnò la nascita di una passione. Fra una Traviata e una Traviata
trentacinque anni di sapiente mestiere, di talento artigianale, di entusiasmi
professionali al servizio di un lavoro singolare: il sarto teatrale, quello che
non veste gli uomini, ma i loro sogni.
dal volume “Vestire i sogni” di Guido Vergani e Umberto Tirelli.
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