1971 : SCIPIONE DETTO ANCHE L' AFRICANO costumi e scenografia di Lucia Mirisola

Sempre un film a tema storico, non ne la Roma dell’ottocento ma in quella Repubblicana, dove al ritorno dalla campagna di Siria, i fratelli Scipioni si trovano al centro di un processo per falso in bilancio, accusati da Catone il Censore. Un film che ha segnato una pagina diversa nella filmografia di Gigi e Lucia sia per l’impianto scenografico che per quello dei costumi, una bella sfida per la signora Lucia Mirisola che racconta nel suo intervento sul film pronunciato all’Accademia del Belgio: “Ho potuto quindi studiare l’ambientazione e la costruzione del costume di quella data epoca e, in particolare, lo spirito e i caratteri dei personaggi in modo davvero approfondito. 

Inutile dire che il fascino del racconto e le atmosfere e le sfaccettature di ogni personaggio mi hanno dato modo di realizzare qualcosa che mi è piaciuto fare, che mi è stato quasi facile e potrei anche dire che è venuta da sé. Non era il caso di prendere in considerazione le colonne laccate, i grandi sfondi coloratissimi e luccicanti, i marmi preziosi dei Kolossal americani, dato il carattere suggestivo e lo spirito malinconico e fatalistico del film. Perciò hop cominciato a pensare come si potesse interpretare la mia visione: avrei dovuto costruire una Roma tutta nuova, felice e ricca per poi invecchiarla e impoverirla per renderla simile alla “città fangosa di Romolo”, come fa notare un personaggio del film; nell’elaborazione di questa idea, improvvisamente e quasi all’unisono, Gigi ed io ci siamo detto: “ questa città c’è già ed è Pompei” che tra l’altro è la Roma più conosciuta nel mondo. 

Su questa idea ho lavorato per rendere la location abitabile ed “abitata” facendomi aiutare dai bravissimi artigiani e tecnici di Cinecittà. Angelo Zamboni, non per nulla veneziano, figlio di Tintoretto e di Tiziano (proprio come me) mi ha ricreato pareti affrescati dai colori in perfetto stile pompeiano ma, per rimanere in tema, un po’ fanè. E quindi con grande divertimento di tutti e, lo confesso, con mio non celato compiacimento cedevamo i turisti ( all’epoca giravano molti giapponesi) che fotografavano le nostre false pitture “autentiche” come le altre. Per il costume e l’arredamento mi sono adeguata allo sfondo che avevo ricreato. Come diceva Pietro Gherardi, un grande scenografo e costumista del nostro cinema, il film è come un affresco: è risibile che un artista concepisca e dipinga un paesaggio e un altro, anche se della stessa scuola, vi inserisca e dipinga i personaggi da lui stesso concepiti; diventerà comunque un ibrido di mani diverse.  

Così ho espresso i costumi e l’arredamento adeguandomi a quei colori che il Vesuvio ed il tempo mi avevano offerti, facendo diventare Pompei un’opera d’arte di una unicità belle straordinarie. I miei colori li ho rubati a quella natura: allegri ma mai violenti e un po’ stinti: per le stoffe ho adoperato tessuti che sembravano fatti al telaio forti e morbidi alcuni li ho realizzati e tinti grazie all’opera degli artigiani della sartoria Tirelli. Le attrezzature di scena: le corazze, le armi, le piccole costruzioni, le lanterne, gli specchi, li ho trovati, manipolati ed adeguati grazie all’immensa offerta dell’attrezzeria Rancati e al lavoro dei suoi operai. Non ho usato orpelli e gioielli: mi sono attenuta ad un’essenzialità fatta solo di toni fusi tra loro. Anche per gli abiti delle donne, pur attenendomi rigorosamente all’epoca, ho adoperato stoffe leggermente plissè, cadenti sul corpo e sfrondate da ogni panneggio ingombrante, dai colori tenui e comunque leggermente sbiaditi. 

Mai il nero e mai il bianco; quest’ultimo semmai, abbassato di tono. Solo Emilia, nella scena con Scipione accovacciato su una pietra in campagna è tutta bianca, candida: è il personaggio chiave della storia che, alla fine, apre gli occhi a Scipione: sei fastidioso gli dice perché troppo grande ed incorruttibile. La produzione ha lasciato una bella cronistoria che riportiamo volentieri: Ancora una volta l’attenzione di Magni si sofferma su Roma: non la Roma moderna, miscuglio di razze e di lingue, propostaci nel suo primo film, né la Roma risorgimentale, popolana e sanguigna, descrittaci nel secondo lavoro, ma una Roma di oltre duemila anni fa, impegnata all’esterno ad estendere i propri confini e la propria potenza e all’interno a contenere le lotte più o meno sordide che si combattevano nella stessa classe dirigente. Con questo film ebbe a dichiarare Magni: “intendo proseguire quel discorso civile e politico che era alla base delle altre mie opere. Il personaggio di Scipione mi sembra particolarmente interessante giacchè racchiude in se e nella sua storia tutte le contraddizioni che caratterizzano la vita di un uomo, e quindi di una società; in ogni tempo, senza distinzioni di civiltà e di regimi politici. Scipione era stato indubbiamente un uomo importante, aveva salvato la Patria in un momento decisivo per le sorti di Roma, ma purtroppo, come sempre accade, gli ultimi importanti alla fine risultano scomodi, danno fastidio: uno Stato come quello romano, aveva bisogno di Scipione per vivere e di eliminarlo per sopravvivere.

Un film dal sapore amaro, dunque?  Nient’affatto ebbe a dire Magni, un film comico, come è nella mia natura di scrittore ancor prima di regista, da una considerazione amara: la inutilità delle persone utili. Mi spiego: il tono del racconto è rigorosamente serio, i personaggi che descrivo non sono mai visti in una luce caricaturale, falsata, ma quando mostro, per esempio, Scipione l’Africano, il trionfatore di Zama, l’eroe delle battaglie puniche, con i panni di un povero pellegrino, che con il sacco in spalla lascia Roma per un esilio volontario, l’effetto che ne deriva è sottilmente ironico, fa ridere.

Scipione l’Africano ha un precedente illustre nella storia del cinema italiano: oltre trent’anni prima del film di Magni, un altro regista, Carmine Gallone, si ispirò al leggendario generale per un film che si ricorda non soltanto per la spettacolarità delle scene ma per un singolare incidente: una delle comparse mostrava al polso, durante la battaglia di Zama, un grosso orologio.

Il film di Magni, non è quindi un doppione di quello di Gallone: lo Scipione descritto nell’opera del regista romano non è il guerriero impegnato nel Ticino o a Cartagine, ma l’uomo politico, uno Scipione ormai avanti negli anni, costretto a difendersi, lui che aveva sempre attaccato, da un nemico ben più pericoloso dei cartaginesi: la calunnia. Prendendo a pretesto i 500 talenti che Scipione aveva avuto da Antioco di Siria come bottino di guerra, e di cui egli non riteneva di dover dar conto, gli avversari del vecchio generale, capeggiati da Catone, gli intentano un processo che costringe l’Africano ad andarsene da Roma pronunciando la frase consegnata alla storia: “ Ingrata patria non avrai le mie ossa” 

Magni ebbe a dichiarare ; “C’è in questo film un mio preciso impegno politico. Qualcuno potrebbe chiedermi perché io per fare politica mi affidi a pagine storiche già consacrate e non a fatti di attualità. Ebbe io ritengo che soltanto la storia può essere d’esempio e che soltanto attraverso un episodio di storia, ricostruito con la fantasia quanto vuoi ma pur sempre vero, si possono meglio cogliere le analogie che legano il passato al presente, le cose di ieri a quelle di oggi”

E’ sempre Magni a parlare. “A dar vita alla figura di Scipione l’africano è Marcello Mastroianni, al suo primo film in costume. Per meglio aderire al personaggio l’attore ha voluto compiere un gesto che pochi colleghi avrebbero fatto si è sottoposto alla completa rasatura dei capelli. Sarebbe stato sufficiente l’impiego di un parrucchino ma Mastroianni non ha avuto un attimo di esitazione”.  Marcello Mastroianni ha tale proposito ebbe a dire: “ E’ stato un fatto psicologico, il mio Scipione è un uomo stanco, deluso carico di tristezza; io posso sentirmi completamente nei suoi panni soltanto se riesco a vivere le sue stesse emozioni, le sue stesse sensazioni: quello della rasatura è soltanto un particolare, ma mi è servito molto” 

Ruggero Mastroianni è stato uno dei maggiori esponenti della storia del montaggio cinematografico italiano, e si fece convincere da Magni con il quale aveva un rapporto di sincera amicizia ad esordire sullo schermo. Racconta il maestro: “ Per la parte di Scipione l’Asiatico, fratello di Scipione l’Africano, mi serviva un tipo particolare, un attore che avesse un aspetto come dire? Un po’ da Lazzarone, da sfrontato: Ruggero Mastroianni pur essendo una delle persone più squisite che io conosca, mi è sembrato particolarmente adatto; così l’ho convinto ad abbandonare momentaneamente la sua professione di montatore (abbandonare per modo di dire, giacché sarà lui stesso a curare il montaggio di Scipione) e a vestirsi da condottiero”Anche questa volta non è stata affatto una produzione di facile lavoro, gran parte delle scene sono state girate dal vero presso gli scavi archeologici di Pompei , Ercolano e Paestum, unica eccezione per il senato che è stato rifatto a Villa Savoia, dove gli attrezzisti di Cinecittà hanno ricostruito un particolare degli scavi di Pompei

“Scipione detto anche l’Africano è un film che ho amato molto, anche perché io adoro Magni, che è un uomo spiritoso, intelligente, un vero amico. Fu un film molto particolare in quanto lui, poverello, durante la lavorazione dovette sopportare una mia grossa crisi. Tutto era nato perfetto. Gigi aveva voluto nel cast anche mio fratello Ruggero, che fu bravissimo e che ha un po’ sofferto che nessuno gli abbia riproposto di recitare. Pure mia madre, che stravedeva per me, mi fece “Marcè tu sei bravo ma sai che il Rossetto stavolta ti ha fregato?. Insomma accadde che Ruggero, il quale di professione fa il montatore cinematografico ed è molto ricercato nel campo finalmente si convinse a recitare con me perché io continuavo a dirgli: “vedrai le risate che ci facciamo con Gigi” 

E in effetti il film cominciò in un clima di grandissima allegria, tanto che Magni un giorno fece: “Regazzi, state sempre a ridere. Adesso basta però lavoriamo” Questa atmosfera meravigliosa durò solo una settimana. Io nel frattempo venivo abbandonato da un mio amore, Faye Dunaway e caddi nella depressione più totale. Ci eravamo trasferirti per alcune scene notturne a Pompei, che col buio sembrava proprio un cimitero. Io ero talmente triste che non sapevo neppure quello che facevo, non mi importava niente. E una notte, tra quei ruderi, mi misero in groppa a una cavallo. Gassman, che anche lui non era tanto allegro perché aveva avuto un problema di fegato, mi fece: “Accidenti! Vai a cavallo, non lo sapevo mica!” E io: “che? Io non ci sono mai salito sopra in vita mia.” E non hai paura? Ma che mi frega, io voglio morire!” Lavorammo tutta la notte a Pompei. 

"All’alba salivo in macchina, correvo a Roma per chiedere se c’erano notizie di Faye, non c’erano risalivo in macchina, tornavo a Pompei, Insomma non dormivo mai.! Quando tornavo all’albergo dove alloggiava la troupe e li trovavo intenti a giocare a carte li odiavo. Ero tutto ingolfato in questo mio magone, non vedevo niente e nessuno. Una volta, nel corridoio dei camerini di Cinecittà che è largo un metro e mezzo, incrociai mio fratello ed ero talmente sovrappensiero che non lo salutai. Ecco questa era l’atmosfera. Io stavo come stavo, c’era Gassman che era reduce da una crisi epatica, c’era la Mangano che, come è noto, non è troppo ciarliera e insomma il set era un mortorio. 

Verso la fine Magni, che è un uomo spiritosissimo, si ammalò, perché mica era uno scherzo tenere in piedi quella baracca di ectoplasmi . Per esempio, noi arrivavamo la mattina, e ognuno aveva la sua roulotte. Così quando Gigi veniva a spiegargli quello che dovevamo fare, esclamava: “Adesso mi vado a fare i sepolcri!” Oppure diceva “ Mettetevi i paramenti ( che sarebbero stati i costumi) e andate da questo tumulo all’altro e se c’è il fuoco fauto giriamo!” E noi non riuscivamo a spiccicare un sorriso manco a ‘ste battute.”

Marcello Mastroianni






















Per Scipione detto anche l’Africano, Lucia Mirisola, ha realizzato un articolato progetto scenografico, come ebbe modo di dichiarare in molte occasioni, il suo intento era quello di non fare, un film sullo stile americano, legato alle ricostruzioni in cartapesta dei ruderi romani. Infatti la sua attenzione si è concentrata sui siti di Pompei ed Ercolano, dove dopo una attenta ricerca ha girato numerose scene esterne, tra queste quelle del senato.

Nell’ archivio della Signora Mirisola, abbiamo trovato due blocchi di appunti presi durante i lunghi sopraluoghi che testimoniano il lungo lavoro di preparazione che c’era dietro ad ogni film storico in quel periodo. Un lavoro di studio dei luoghi e del loro adattamento alle esigenze del film. Luoghi completati con le statue dei De Angelis che da oltre cento anni realizzano sculture per il cinema.



una pagina del blocco della Signora Mirisola


ancora una pagina di appunti


Il necessario da prendere dai De Angelis



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