1973 LA TOSCA scenografia e costumi di Lucia Mirisola

 

… Più tardi facemmo La Tosca, che è ambientata all’epoca della battaglia di Marengo, cioè nel 1800. Ho lavorato molto sull’ Ottocento, da Umberto. Aveva un repertorio straordinario. Sai li c’era passato Tosi, Con Visconti e roba del genere, figurati le cose belle che trovavo e lui francamente, era contento che io le potessi adoperare, anche cambiandole, soprattutto per i figuranti, mentre invece gli attori li ho vestiti ex novo … E poi mi “concedeva” di avere delle defaillances sulle epoche, perché per esempio in Tosca io avevo trovato un bellissimo scialle a fiori, uno scialle anni ’30 e l’ho messo addosso a Tosca e stava benissimo. Io avevo paura che Umberto mi gridasse : “No questo non glielo puoi mettere, ma glielo messo e lui ha approvato. Perché poi lui aveva rispetto della fantasia e dell’autorialità.

Anche se, di fondo era molto rigoroso, molto pignolo. I soldati per esempio non avevano la divisa, ma erano raffazzonati in una maniera, scusatemi la parola un po' artistica, con colori, con cappelli con piume … poi naturalmente, a Castel S. Angelo ho messo le divise.

Tosca aveva due soli vestiti uno più bello dell’altro. Il primo era quello bordaux, di velluto al quale avevo aggiunto uno scialle … Il secondo invece era di derivazione “tosiana”, perché mi ricordavo molto Morte a Venezia, e …peccato andato bruciato quel vestito … perché Umberto lo aveva regalato a Monica e nell’incendio di casa sua è andato perduto …

E’ stata una grande scuola per me Umberto. Che aveva un grande occhio critico. Aveva una grande generosità nei confronti dei costumisti. Aveva poi un bellissimo rapporto con gli attori, con registi; rapporti di amicizia vera, familiari non solamente di lavoro … Mi ricordo che un giorno alla Vitti ha detto: “Cara tu sei brava, simpatica, divina, ma ti prego non venire mai più nella mia sartoria perché mi fai piangere la prima sarta”.

Mi ricordo mi ricordo benissimo quando glielo disse, perché lei veniva e aveva mille fisime: “No questo lo facciamo più stretto, lo facciamo più largo … “ La verità è che lei, così bella, così straordinariamente brava, era sempre insicura e trasferiva la sua insicurezza sui costumi ….

Lucia Mirisola dal volume commemorativo per i 50 anni della Tirelli


Il genio creativo di Magni e del maestro Armando Trovajoli ha dato vita nel 1973 ad un’opera che ha segnato la storia, stiamo parlando della rilettura in chiave tragicomica de “LA TOSCA”. L’opera pucciniana rivista dai due romani è diventata una commedia musicale dal sapore rugantinesco. Racconta Magni “Con La Tosca mi ero riproposto di fare un’” opera buffa” di oggi, usando tutti i mezzi di espressione possibili: il canto, la poesia, il recitativo, la musica. Forse è quello tra i miei film che amo maggiormente. E’anche il film più politicizzato che ho fatto, naturalmente anche questo in chiave di lettura particolare, tra il cabaret e il romanesco. 

Non me la prendo con nessuno in particolare, ma alla critica andava bene un cabaret espressionista tedesco fatto dagli americani con delle imitatrici di Lotte Lenya che cantano in inglese, e invece non andò bene che venisse riproposto il drammone di Sardu, che l’autore in filigrana usasse Puccini per certi momenti, e che laddove Puccini canta in un modo, cantasse in un altro, o che uno raccontasse questa storia tra Castel S. Angelo e Palazzo Farnese”  

Le riprese non si svolsero propriamente sui luoghi in qui la storia originale è ambientata, la Chiesa di Sant’Andrea Della Valle venne sostituita da quella di Sant’Agnese in Agone (concessa dai Pamphili che non riuscendo a trovare finanziamenti statali per dei restauri li fecero con il corrispettivo dato dalla produzione per la concessione della Chiesa) Palazzo Capizucchi e naturalmente Castel S. Angelo luogo principe di tutta la storia. Scenografie e costumi naturalmente curati da Lucia Mirisola che si servì della Sartoria Tirelli per la realizzazione degli abiti da lei creati appositamente per i protagonisti di questa ulteriore opera del marito. 

Il cast come è noto era formato con attori di primo piano, questo fece prendere al film il premio “Anna Magnani” e il Globo d’Oro a Monica Vitti come migliore attrice protagonista. La critica ebbe pareri discordanti riportiamo una lunga recensione del film di Giorgio Bosello trovata tra le carte dell’archivio della coppia: “ La Tosca, diretto da Luigi Magni nel 1973, è uno dei pochissimi esempi di musical italiano: non un film musicale, con delle belle canzoni, magari, ma fuori del contesto narrativo: le canzoni sono parte integrante, sono spesso degli “ a solo” carichi di significati, con cui perfino alla città è possibile esprimere la propria opinione. Per tentare questa operazione, comunque straordinaria, qualunque sia l’esito finale e il gusto spettacolare. 

Magni ha fatto ricorso non solo a Sardou e Puccini, ma a tutta la tradizione dialettale romanesca, non solamente, quindi, a Belli: ha guardato ad una scuola figurativa locale, ma anche a quella straniera (esemplare il quadro vivente ripreso pari pari da Goya, così pure al pittore spagnolo si ispirano le figure grottesche). Lo stesso lavoro di ricerca ha compiuto il principale collaboratore del regista, il maestro Armando Trovajoli, costretto a ripescare motivi musicali  che riecheggiassero secoli di storia, dal gregoriano a Mozart, dal Ca Ira, al beat, alle marcette ai motivi esotici. A perderci tempo, si potrebbero individuare centinaia di citazioni, ma non avrebbe senso, poiché l’obbiettivo era quello di creare un multiforme, ma unico, affresco. 

Ciò che importa non è il modo con cui si è venuto figurando, i singoli momenti di cui si compone, ma tutto l’insieme, e i motivi che lo hanno generato. Il perché della sua esistenza. Proviamo, pertanto, ad analizzare la pellicola, secondo queste linee direttici, senza soffermarci sulla trama, fin troppo conosciuta. Il film comincia con un’identificazione fondamentale: “l’azione di svolge a Roma, il giorno di Marengo, il 14 Giugno 1800”. Il fatto che Magni utilizzi proprio il termine azione, specifico della teatralità, ci mette subito in guardia rispetto a ciò cui stiamo per assistere. 

Nei cento minuti che seguiranno, gli attori metteranno pochissime volte il naso fuori dalla porta: fatta eccezione per la fucilazione e la morte di Tosca, scene comunque d’impianto fortemente teatrale, si contano soltanto sue uscite ed un’entrata a piedi, un’uscita in carrozza ed un arrivo a cavallo. Il resto, la continua serie di interni, è il grande palcoscenico su cui avrà luogo il dramma, il terreno adatto per la complessità del discorso. Per questo Magni lo indica subito. Ed è un avvertimento, ancora precedente, è presente durante i titoli di testa, accompagnati da un coro che recita: “State in campana, pretacci infami: Bonaparte ha passato er San Bernardo”. Stiamo in un momento storico decisivo, non importa che crollino le repubbliche instaurate da sparuti gruppi di idealisti. Ormai non è più possibile tornare indietro: “Li re sovrani stanno tutti a piagne”, perché sentono il trono che je balla”. 

A Vienna si farà l’ultimo anacronistico tentativo di ripristinare l’ancient regime, nel 1815, dopo la caduta definitiva di Bonaparte, ma sarà una mera illusione. Così Magni, riferendo avvenimenti precedenti alla restaurazione, ma pure alla consacrazione dell’impero, coglie il momento chiave della nostra storia moderna e vi unisce idealmente tutta l’atmosfera di fine secolo, tanto che i rivoluzionari nel film vengono chiamati giacobini, e lo stesso Cavaradossi si ricorda di quando andava “ a magnà con Robespierre, tutti amici!” Se è colta l’importanza del momento, ed è possibile riferire le passioni e le speranze, le paure dei protagonisti di quegli eventi, non si possono però farli rivivere davanti ai nostri occhi, mostrare le battaglie, i fucili, però farli rivivere davanti ai nostri occhi, mostrare le battaglie, i fucili, i campi disseminati di cadaveri.

 Non si possono far morire un’altra volta perché servano da lezione agli spettatori, immerso come sono in un’altra epoca di forti cambiamenti, magari più confinati nell’ambito del pensiero e del costume. Non è necessario. Basta un esempio, il più fasullo possibile, teatrale, appunto, lontano quanto basta dal campo di Marengo, perché i suoi personaggi, possano sembrare partecipi della storia, e rimanerne vittime, senza nemmeno essere mai esistiti. Che è poi lo stesso, e rimanerne vittime, senza nemmeno essere mai esistiti. Che è poi lo stesso triste destino della stragrande maggioranza di chi ha combattuto veramente ed ha lasciato la pelle sul campo. Ecco allora l’idea di ripescare nelle secche del drammone romantico e ripresentare ancora una volta la storia dell’eroina di Victorien Sardou, cantante di fama, che divenne cantante per davvero, grazie a Giacomo Puccini, in una delle opere più popolari e melodrammatiche di sempre. Magni non è spinto dalla voglia di rifare la Tosca per commuovere il pubblico con il morboso e disperato amore tra la cantante ed il pittore Mario Cavaradossi: ne vuole prendere a scherno questo stesso amore infarcendolo di battute grevi, riducendo a macchiette figure tanto nobili. Non fanno centro, pertanto, le due principali interpretazioni critiche dei quotidiani all’epoca dell’uscita del film: né quella esaltata che vede la terza Tosca come la migliore, libera dalle melensaggini presenti tanto in Sardou, quanto in Puccini: né tanto meno, quella denigratoria, che riduce l’operazione “ad “una sorta di musical trasteverino, una festa de ‘Noantri trasferita sulle tavole del Sistina”. 

Sbagliano entrambi, perché non sanno cogliere il vero obbiettivo: a Magni non interessa la tragedia dei due amanti, né vuole liberarsi, con faciloneria, delle arie pucciniane. Se prende in mano proprio una storia così popolare  è perché ne ha comunque il massimo rispetto, perché adora Puccini e l’idea di opera popolare, senza per questo volercisi mettere a competere. Vuole tornare a quel momento storico, senza la velleità di sorprendere lo spettatore: partendo, anzi dalla consapevolezza che questi conosca già la storia per filo e per segno. Vuole che i personaggi di questo paradigma raccontino qualcosa di più che i loro fatti personali, per questo drammatici possano essere. E quale storia meglio della Tosca, tanto conosciuta e che tanto si presta alla musica, perché proprio attraverso la musica, i suoi protagonisti e la stessa città possano dire la loro?. Attenzione però a non cadere a questo punto in un equivoco ancor peggiore: 

Magni non vuole farci una noiosa lezioncina di storia, né vuole bacchettarci con una morale alternativa a quella dei pretacci infami. Fervidamente convinto dell’importanza della dialettica, vede tutta la storia come gliela insegnata Marco Aurelio e come l’ha sintetizzata Hegel: una dialettica continua, in cui, senza sapere da dove si viene, non si può andare da nessuna parte: a noi non può che riferire, quindi, come ha sempre fatto nella sua carriera da regista, vicende frettolosamente dimenticate o aspetti meno noti di avvenimenti celeberrimi, e non può che farlo nei termini e modi dello spettacolo nazional popolare di gramsciana memoria. Se ne frega, così, di Parigi e guarda tutti gli avvenimenti di Roma, città senza dubbio più vicina a lui, ma anche a noi; città dove, allora, regnava il potere più assoluto e più assurdo della storia, contro il quale una ribellione era impossibile, a  causa di un immobilismo millenario. Ancora una volta le vicende di Floria Tosca, allora, gli vengono incontro, con il loro sapore di feullenton, gli strilli e gli spari, i mozzichi ed i baci, per calarsi nella storia partendo dalla finzione più evidente ed amata dal pubblico, per poter parlare, senza troppa retorica, dei temi fondamentali e perenni dell’esistenza: l’amore e la guerra, la fedeltà e la menzogna, la fede in Dio e nei propri ideali. Come negli altri suoi film, si incontrano la verità storica e la finzione romanzesca dei personaggi di fantasia, non per questo incapaci di convincere e di emozionare. 

Non si vuole realizzare il “film storico” che fosse stato presente fisicamente, anziché solo attraverso gli echi lontani, non sarebbe potuto essere mai più vero di Cavaradossi Mario, “pittore a sguazzo”, poco Dio, molta arte, fantasia malata” Magni tratta allo steso modo realtà e fantasia, le impasta, le riempie di ironia, di riferimenti alla cronaca contemporanea: vi innesta reperti storici presi solo lui sa dove, come un tombarolo, uno di quei fuorilegge che riportano alla luce un mondo da tutti dimenticato e che nessuno potrebbe mai crescere senza di loro, consapevoli di profanare e commerciare beni” appartenenti allo stato”. Non è un caso che proprio nel mondo dei tombaroli Magni abbia ambientato il suo primo fil da regista “Faustina”. Così, trattato spesso come quelli, quasi fosse un delinquente, prosegue l’idea di uno spettacolo, che scavi in profondità, e che vada incontro al pubblico, senza per questo svendersi: molto vicino allo spirito della commedia all’italiana, dal cui intende l’arte. Il film in costume, intriso di storia, rivisitato con umorismo, che costituisce il 99 % della filmografia del regista, non aspira, all’unicità creativa, ma resta, molto semplicemente, la maniera migliore che Magni conosce per fare cinema e, schiettamente quella che preferisce. In tutto il film la fedeltà e la menzogna solo calate, come abbiamo detto, in un contesto particolare: il potere temporale della Chiesa costringe chiunque a fare i conti quotidianamente con l’autorità terrena e con quella ultraterrena. 

Circondato dai suoi scagnozzi il capo dell’alta polizia perlustra le strade, ricordando ai cristiani, alle persone “dabbene, fedeli all’ altare”, che devono tremare lo stesso. Il potere è cieco e assoluto: mente, in totale coscienza, per evitare di essere minimante attaccato. Scarpia calpesta i deboli, tiene a distanza i sulbarteni e mira a sostituirsi ai suoi superiori: è potente ed infallibile, ma sarà la sua stessa presunzione a giustiziarlo; lui che conosce tutto e tutti, ma che non può aspettarsi che una donnetta come Tosca afferri un pugnale e glielo pianti nel fianco. Perché avrebbe dovuto farlo? Eppure lo fa, e a lui non rimane che un ultimo significativo gesto, inquietante, quanto inutile: aggrapparsi alla croce sulla sua scrivania e tirarla a sé, rivelando che si tratta in realtà dell’elsa di un pugnale. L’arma gli serviva poco, ma serve allo spettatore per comprendere il vero scopo della religione nelle mani dei suoi rappresentanti. In tutto il film i protagonisti, le figure minori, le semplici comparse si misurano con Dio e con l’immagine che ne da la chiesa, che ne detiene i diritti. All’inizio il cardinal governatore rivolge all’Altissimo una preghiera affinchè protegga lui e Santa Romana Chiesa dalle minacce di Bonaparte: inventa una formuletta propiziatoria, e chiede conferma, senza però ottenere risposta. Ma, d’altronde “Chi tace acconsente”. Sempre così i ministri spirituali hanno interpretato il silenzio proveniente dall’alto, forti dell’infallibilità che si sono attribuiti. 

Utilizzano a piacimento il nome di Dio, per poi riporlo, quando non è necessario: “Lassate perde da pregà, nun serve più , grida il sagrestano che porta le notizie della vittoria di Marengo. Cavaradossi è la dietro che ascolta questo vergognoso sfruttamento del Padreterno, mentre ultima il suo affresco con la Maddalena. Rimprovera allora il Signore, che mettendosi dalla parte dei preti,va, secondo il pittore contro il proprio interesse: poi, però ritratta, in modo ambiguo e frettoloso, quando crede che la voce di Angelotti, nascosto dietro una porta, sia quella di Dio. Ne ha appena messo in dubbio l’esistenza, che già si fa il segno della Croce, salvo poi giustificarsi per esserselo fatto. Troppa confusione per potere opporre una degna resistenza. Molto più astuto di lui il frate pedofilo che spoglia il chierichetto nella stanza accanto, ed è svelto a rivoltare contro il pittore le accuse mossegli a tal proposito. “Non lo ascoltare. E’ il diavolo!”: tanto basta perché la questione sia chiusa. Il senso del tempo incombe, come un implacabile supervisore, in ogni immagine della Tosca e di tutto il cinema di Luigi Magni: le fasi della storia sono cicliche ed è impossibile guardando al passato, capire cosa ci riserverà il futuro. La saggezza de “li antichi”, come li chiamava, con sincera ammirazione, il tombarolo di “Faustina”, si nasconde dietro ogni porta, sotto ogni pavimento. Cesare Angelotti, fuggendo da un passaggio segreto, si trova in corridoi pieni di scheletri e viene inseguito da un drappello di poliziotti pontifici. “Mamma mia, quanti de Roma”. 

I pupazzoni barocchi, i teschi, le croci oro e nere, sono in ogni inquadratura. Ma lo sguardo polemico di Magni non è rivolto solo al passato. I riferimenti alla realtà contemporanea hanno la forma di un’invettiva contro il potere bugiardo, incontrollabile. Nella monarchia assoluta, e il papato lo era per eccellenza, l’investitura era data dall’alto, e il contratto sociale aveva il valore di una barzelletta. O tempi stavano per cambiare, ma ogni cambiamento ha bisogno di una coscienza generale, non bastano quattro carbonari istruiti ma isolati. “Qui non si muove foglia che il popolo non voglia”, cantano infervorati Cavaradossi ed Angelotti,davanti alla sgomenta Tosca. Ed oggi? Oggi, secondo Magni, è ancora possibile il delitto di stato, è possibile che un Pinelli sia fatto passare per suicida, come allora era possibile mettere un Angelotti, che si era avvelenato, il cappio al collo, perché il popolo doveva sapere che un reo non poteva mai scappare alla giustizia, per nessun motivo. Cavaradossi, nella sua oara d’aria, banditi dolcezza e languore, cerca di convincere Roma a non fidarsi, ad insorgere contro il padrone. 

L’attore Gigi Proietti guarda dritto in macchina, negli occhi dello spettatore, ma a rispondergli sono le bocche smozzicate dei mascheroni di pietra; cantano stornelli “disimpegnati”, giustificandosi con la storia della “gatta presciolosa che fece li fiii ciechi” E sempre con Roma anche Tosca scambia le sue ultime parole, dopo aver scoperto la targica realtà, costretta a fuggire sui tetti di Castello per evitare i fucili delle guardie. Chiede alla città cosa stia aspettando, perché non la smette di cantare stornelli; le dà un ultimo consiglio: non basta il coltello, per fregare il potere bisogna usare il cervello. Lei magari non avrà cambiato la storia, si sarà pure sbagliata, ma almeno può dire di averci provato. 

L’interrogativo di fondo sull’altare è a cosa serva. Angelotti rimprovera l’amico pittore di essere utile alla rivoluzione, dicendogli che farebbe meglio ad imbracciare il fucile, piuttosto che “ sbratascià Madon”, lavorando per i preti. Cavaradossi non prova grande simpatia per l’uomo che ha davanti, il cittadino che non ride mai: convinto di aver intrapreso “una battaglia disperata”, si sente un uomo superiore, proprio perché è un’artista: lui, che è stato in Francia e si è imbevuto degli ideali della Rivoluzione, combatte coi pennelli: dipinge santi e Madonna, ma sotto “micio micio”, ci si infila un messaggio. Ma noi scopriamo che questo messaggio è destinato a non arrivare mai; e lo scoprirà lo stesso pittore, pronto a riprendere in mano ancora una volta i suoi strumenti, ma, questa volta, per cancellare con due strisce bianche il suo inutile lavoro. “L’arte non serve a gnente, se nun canta la passione de li popoli”, e, d’altra parte, chi la vedrà mai la sua opera, “chi lo guarderà mai quel puttino lassù? Siamo nel 1973, in una fase cruciale della cultura e, più specificamente, del cinema italiano: sulla stagione d’oro della commedia sta per calare il sipario;nei due anni successivi usciranno gli ultimi grandi e definitivi capolavori del genere, “c’eravamo tanto amati” ed “Amici Miei”, dove la risata satirica si impregna di un’amarezza orami incancellabile. La società italiana è definitivamente cambiata, alla faccia degli specchi deformati con cui i cosiddetti comicaroli avevano tentato di spaventarla; negli anni sessanta un’intera generazione di registi, di attori, di sceneggiati, aveva mostrato al pubblico la sia seconda faccia, quella arrivista, infingarda, ipocrita; aveva creduto nella possibilità di redenzione che offriva loro il cinema, meno ammorbante di quello “impegnato”, ma più efficace; a quindici anni da “I soliti ignoti”, la battaglia disperata è stata perduto; la commedia neo ungherese è alle porte, assieme alle farsacce scollacciate ed alla comicità televisiva. 



L'altare di Santa Agnese in Agone dove è stata girata la prima scena de La Tosca


L’Italia è cambiata e non c’è più nessuno pronto a dirglielo, a stuzzicarla e bastonarla. Davanti ad un panorama così desolante,  c’è davvero poco da ridere, e forse ha ragione Cesare Angelotti, quando dice che ridere non serve. Se lo scopo dell’arte viene messo in discussione per tutto il film, in una società dove il potere che commissiona le opere d’arte, è il primo nemico degli ideali dell’artista, all’amore non tocca una sorte migliore. Anzi, arte ed amore camminano di pari passo, affrontano dubbi, ostacoli, traversie, per giungere a nuovi significati. Non è un caso che i due amanti del film, Tosca e Cavaradossi, siano entrambi artisti: saranno proprio loro a scontrasi con il cambiamento dei tempi e a risultare violentemente cambiati nell’immobilismo generale. Ad essi toccherà prendere coscienza; termine che nel 1973 era talmente all’ordine del giorno, che i giornalisti lo scrivevano tra virgolette, per non rischiare di compromettersi. La graduale presa di coscienza costringe i due a spogliarsi davanti all’obbiettivo, a svelare ogni cosa di sé, per cercare di afferrare il perché dell’amore, come dell’arte. 

I due parlano in dialetto, un romanesco magari parlato se dai nostri tempi, ma molto affine alla lingua che avrebbero parlato se fossero realmente esistiti. Tosca è una passionale, pronta a saltare addosso al suo uomo appena lo vede; donna di mondo come si definisce, nasconde maldestramente la propria insana gelosia, ma è capace di non batter ciglio, nel proprio letto, accanto al pittore, trova la marchesa Attavanti, come aveva temuto, ma un altro uomo: cresciuta dalle monache e devotissima alla Vergine, in modo certamente eccessivo Scarpia, trovatosi di fronte all’immagine della Madonna, non puà giustificarsi: “Aho, e che voi da me?”, dice, con tono rassegnato. Così Cavaradossi, rivoluzionario solo a parole, è un uomo sistemato, quasi borghese, innamorato pazzo di quel “castigo” di donna, e molto nella manica di monsignor governatore; ma è poi pronto a giocarsi la carriera e la pelle per salvare uno sconosciuto. “Perché?”, gli domanda proprio Cesare Angelotti, come gli domanderà, in seguito, la gelosissima cantante, “perché?”. “ Io non lo faccio per lui, Due ore fa manco lo conoscevo” risponde, e, subito,incalza Tosca: “E allora per chi lo fai?”. “Per l’idea”. Ma che è st’idea, che fa rischià la vita pè uno che manco conosci? Chiede lei, ancora all’oscuro. 

Ma, poche ore più tardi, nella stanza di Scarpia, mentre sta per versare al barone un goccio di vin di Spagna, dalla finestra scorgerà il corpo di Angelotti, impiccato, nonostante fosse già morto suicida, ed allora anch’ella, che poco prima era stata invitata dal suo amante a tornare “ a pascolà la capra alla montagna”, in un istante, prederà coscienza. “Ho afferrato il coltello e giù dal piedistallo l’ho fatto ruzzicà” spiegherà a Mario, in una curiosa, drammatica scena dentro la cella, coi ruoli che si sono invertiti, e lei, novella giacobina, che è costretta a giustificare un insperato ed inspiegabile salva condotto e la procedura della finta fucilazione. “Perché?”, chiede appunto Cavaradossi.  “ Perché? Perché il papa è il nostro re” risponde, ignaro alla verità, Spoletta uno dei tetri servitori del barone. Come a dire, non si fa niente per niente. Che è poi esattamente il contrario di ciò che è accaduto, con quei due disgraziati che hanno abbandonato tutto, il successo, la tranquillità, il loro stesso amore, nel nome di qualcos’altro che non si sa se esista; due che, guardando assieme al loro passato ed a un futuro che non avrà mai luogo, cantano: “se semo litigati, se semo aritrovati, intorcinati dentro a na bandiera; prima ci univa solo l’avventura, ma adesso un atro foco ce divora: foco de libertà che abbrucia er core. Mo lo potemo di: questo è l’amore”. 



fermo scena da La Tosca 

Così, se Tosca ha ucciso Scarpia non per proteggersi dalle di lui insidie, come voleva la tradizione, tanto che sul canapè ce lo ha guidato proprio lei, ma in nome di qualcos’altro. Cavaradossi non spende la sua ultima ora d’aria ricordando i dolci baci e le languide carezze, ma avvertendo Roma di non dare retta a chi la sta ingannando. Così, infine, le due morti appaiono completamente diverse dalla tradizione romantica, senza per questo essere meno drammatiche. Gli ultimi barlumi di risate, amarissime, come nel finale di “amici miei”, ce le regala ancora il pittore, che, dopo aver ostentato sicurezza davanti al plotone di esecuzione tutt’altro che a salve: “mortacci vostri, grida, col fiato strozzato, portavoce degli innumerevoli Cavaradossi della storia, vittime di infami inganni, “meno male che erano finti”. 

Tosca pochi istanti dopo, ancora all’oscuro del trucco, gli ordina di non respirare, che si vede e fingendo commozione mormora al cadavere del suo amante “zitto, hanno imboccato”, misto di comicità e dramma, reso splendidamente dalla Vitti. Ma poco dopo, quando ormai il dramma si è compiuto, resta poco da ridere, e Tosca, sulla loggia del castello, compie l’ultimo atto della sua presa di coscienza, rispondendo a chi, col fucile puntato, le grida di fare attenzione, perché potrebbe cadere: “Nun casco: me butto!”



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