LUCIA MIRISOLA (Venezia 1 Settembre 1928 - Roma 23 Dicembre 2017)

 

 


Il maestro Magni bacia la mano alla signora Lucia sotto lo sguardo di Nino Manfredi 
sul set de In nome del Popolo Sovrano (1990)

Nella Sicilia di inizio XX secolo, in provincia di Caltanisetta nel piccolo comune di San Cataldo nel comprensorio dell’altopiano solfirifero siciliano, nasce il 4 Ottobre 1903 Beniamino Mirisola. Questa è l’origine della storia che vi raccontiamo in questo secondo volume. Beniamino appena in età da lavoro, emigra in Veneto a Venezia dove trova impiego come procuratore delle Imposte Dirette. Conosce una ragazza figlia di Pier Antonio Giada e Roma Fosco di nome Ermenegilda. La ragazza era la seconda di tre sorelle Cecilia che ebbe il coraggio di lasciare la casa di origine e trasferirsi a Roma per frequentare il corso di infermiera e poi entrare nella Croce Rossa – Paolina invece prese i voti e con il nome di Suor Luigia entrò tra le suore di Maria Bambina andando missionaria in Myanmar dove è deceduta nel 1991.

Tra Ermenegilda e Beniamino scoppia l’amore tanto che si sposeranno il 13 Maggio 1926 dal loro matrimonio nascono Graziella nel 1927, Giuseppe nel 1930, Luigi nel 1934, la seconda dei loro quattro figli nasce il 1 Settembre del 1928 alla quale il parroco dei Santi Apostoli impone il nome di Lucia. Tre anni dopo la nascita di Luigi, Beniamino viene richiamato in Sicilia e la famiglia si trasferisce ad Augusta in Via della Capitaneria.

Qui nasce l’ultima dei loro figli Maria era il 1937. Intanto la piccola Lucia viene ammessa agli istituti medi di primo grado presso il Regio Liceo Megara, mamma Ermeneglida si ammala di febbre tifoidea e muore a soli 36 anni il 6 Marzo del 1941. Beniamino orami vedovo, viene trasferito a Siracusa e la famiglia si stabilisce in Via delle Vergini. Qui conosce Ada Agapiti e dopo poco si sposano dal loro matrimonio nascono Giorgio nel 1943 – Silvia nel 1945 – Cecilia nel 1947. Lo scoppio della seconda guerra mondiale separa i fratelli Mirisola. I figli di Ermeneglida quindi Graziella – Lucia Giuseppe (Pinuccio) e Luigi dalla Sicilia tornano in Veneto e vanno abitare con i nonni materni e la zia Cecilia nella casa di Campo S. Polo a Venezia.

Venti di guerra, soffiavano impetuosi, la vita a Venezia non era più sicura per evitare di far morire di fame i bambini Roma e Cecilia decidono di partire per San Daniele in Friuli terra di origine della famiglia. Qui Lucia e i fratelli trascorrono gli anni più difficili delle ostilità, nonostante il pericolo Lucia riesce a dare sfogo alla sua passione per il disegno che diverrà la sua prima occupazione. Dopo la fine della guerra con il ritorno a Venezia della famiglia si iscrive al Liceo Artistico e dopo alla facoltà di Architettura. Ma la sua strada era un'altra quella che la porterà a Roma agli inizi degli anni cinquanta per frequentare l’Accademia delle Belle Arti e il Centro Sperimentale di Cinematografia dove si diploma costumista nel 1955 con il Prof. Pietro Gherardi, mentre all’Accademia delle Belle Arti si diplomerà scenografa.

Il suo insegnante, l’Architetto Pietro Gheradi, capito il suo valore la vuole al suo fianco come assistente in due film che sono per lei uno straordinario trampolino di lancio stiamo parlando de “La Grande Strada Azzurra” di Gillo Pontecorvo e “La Dolce Vita” di Federico Fellini.

Dirà in una delle tante interviste: “Ho cominciato ad interessarmi di vestiti durante la seconda guerra mondiale quando eravamo molto poveri ed ereditavo gli abiti di mia zia che erano troppo grandi e dovevo ridurli alla mia taglia. Così ho imparato con molta buona volontà a disfare tagliare e cucire” Inizia per la giovane Lucia una lunga e fruttuosa carriera che la porterà tra gli anni 70 e gli anni 90 del Novecento ad essere premiata con tre Nastri d’Argento e due David di Donatello. Verso la fine degli anni 50 trovò la sua autonomia firmando i costumi di commedie come “L’Audace colpo dei soliti ignoti” di Nanny Loy ma il suo primo fil veramente importante fu “I dolci inganni” di Alberto Lattuada interpretato da Catherine Spaak. Una delle sue più riuscite operazioni degli anni sessanta fu la caratterizzazione della giunonica vedova (Fulvia Franco) sedotta in treno dal soldato Nino Manfredi nel film “L’Avventura del Soldato” Per vestire la Franco ideò un divertente connubio di lutto e provocazione.

L’ OSTERIA MENGHI E L’INCONTRO CON GIGI MAGNI

I giovani come lei, arrivati a Roma, per studiare senza un becco di un quattrino che non sapevano neanche se la sera potevano cenare si ritrovavano spesso all’Osteria Menghi, sulla Via Flaminia alle spalle di Piazza del Popolo ( diverrà qualche anno dopo il centro della sua vita) Li una sera Lucia trovò tranquillamente seduto al tavolo che di solito occupava il giovane Gigi Magni che conversava con Willy Antuono un ragazzo italo americano arrivato a Roma per frequentare il Centro Sperimentale nel corso di sceneggiatura. Dopo una presentazione non proprio idilliaca Gigi e Lucia parlarono per tutta la sera e scattò subito una innata simpatia forse per le stesse passioni che li accomunavano.

Sta di fatto che qualche mese dopo Lucia fece una proposta a Magni: “andiamo a vivere insieme almeno risparmiamo un affitto” E così fecero era l’Aprile del 1956 quando lasciarono le rispettive stanze ammobiliate di Via degli Scialoia e di Via Capo D’Africa per trasferirsi in una stanza ammobiliata in Via del Corso. Magni in quegli anni lavorava ancora in aereonautica ed era stato trasferito a Ponza dopo un alterco con un ufficiale di cui abbiamo parlato nel primo volume. Una sera telefonando a Lucia che da poco era diventata sua moglie (si sono sposati il 16 Agosto del 1956 con rito civile in Comune a Roma) si sfogò su come questa situazione iniziava a stargli stretta e lei che aveva un carattere forte e determinato forse preso dalla nonna Roma e dalla zia Cecilia non batté ciglio e gli disse: “licenziati facciamo la fame ma tu devi fare quello che ti piace” Una scelta coraggiosa quella che fece Lucia, nel far lasciare a

Magni un posto fisso per qualcosa di incerto come poteva essere l’ingresso nel mondo del cinema per un giovane totalmente a digiuno della materia come poteva essere Magni. Ma così fecero, quindi senza temere smentite possiamo affermare che se non ci fosse stata Lucia il regista Gigi Magni non sarebbe mai emerso.  Gigi grazie alla collaborazione con Willy Antuono alla stesura di Tempo di Villeggiatura, conosce Age & Scarpelli questo fu per lui un ottimo trampolino di lancio, perché la coppia gli chiese di collaborare insieme a Manlio Scarpelli il fratello di Furio alla scrittura dei caroselli dei quali loro davano solo il codino.

Lucia intanto veniva incaricata di fare i costumi proprio di alcuni di questi micro film che hanno fatto la storia della televisione italiana.  Le loro strade lavorative camminano parallele incrociandosi alcune volte come in occasione de “Il mio amico Benito” film di cui Magni fece la sceneggiatura e Lucia i costumi, stessa cosa in occasione di “Il Marito è il mio e l’ammazzo quando mi pare” Sono questi gli anni in cui Lucia è impegnata alla lavorazione di film come “La Grande Guerra” di Mario Monicelli ,“Don Camillo monsignore ma non troppo” di Carmine Gallone

Solo nel 1968 con l’esordio alla regia di Gigi Magni con Faustina le loro strade diventano parallele per oltre mezzo secolo.  Il sodalizio Magni – Mirisola, inizia con questo film dove il maestro racconta la storia di una ragazza figlia di un soldato afro americano che aveva fatto la guerra in Italia e di un’italiana che subisce violenza domestica dal marito nella Roma dell’immediato secondo dopo guerra. La Roma delle baracche Lucia la colloca ai mercati tranianei che aveva reso più vivibili attraverso interventi che vedevano gerani alle finestre insomma un po’ di colore sulle tristi rovine romane. 

Con Nell’Anno del Signore del quale cura solo i costumi emerge la sua passione per il costume storico dirà in una intervista: “Nell’Anno del Signore io ho fatto solo i costumi, il primo ed unico film di Gigi dove non ho fatto anche la scenografia perché c’era Carlo Egidi che a quell’ epoca era un architetto molto quotato ed evidentemente Frizzi e la Sanmarco hanno preferito prendere lui, io mi sono occupata solo dei costumi. Per i costumi ci si ispira alla documentazione presa da quadri, da epoca, da descrizioni sui vari libri che i fortunatamente mi ritrovo in casa perché come sai Gigi Magni è un grande cultore dei libri.  Ho sempre pensato di non fare l’archeologia del costume, io studio l’epoca le fogge la forma e poi ci metto del mio, ci metto anche qualcosa che mi ricorda il carattere della persona che devo vestire del personaggio più della persona. In questo caso per esempio nel fatto di Claudia Cardinale io volevo metterle uno scialle di cashmere che a quell’epoca si usava molto questi scialle di cashmere, però mi dispiaceva metterle uno scialle già pronto e allora l’ho fatto rifare a maglia dalla sartoria di Gabriele Mayer e mi ha interpreto uno scialle molto particolare che ha dato molto al personaggio”

Certamente il film che l’ha vista più impegnata sia dal punto di vista scenografico che per i costumi è stato “Scipione detto anche l’Africano” dove ha fatto una straordinaria ricerca dei luoghi e uno studio molto particolare sui costumi, ma lasciamo che sia lei stessa a raccontare: “Ho potuto quindi studiare l’ambientazione e la costruzione del costume di quella data epoca e, in particolare, lo spirito e i caratteri dei personaggi in modo davvero approfondito. Inutile dire che il fascino del racconto e le atmosfere e le sfaccettature di ogni personaggio mi hanno dato modo di realizzare qualcosa che mi è piaciuto fare, che mi è stato quasi facile e potrei anche dire che è venuta da sé. Non era il caso di prendere in considerazione le colonne laccate, i grandi sfondi coloratissimi e luccicanti, i marmi preziosi dei Kolossal americani, dato il carattere suggestivo e lo spirito malinconico e fatalistico del film.

Perciò hop cominciato a pensare come si potesse interpretare la mia visione: avrei dovuto costruire una Roma tutta nuova, felice e ricca per poi invecchiarla e impoverirla per renderla simile alla “città fangosa di Romolo”, come fa notare un personaggio del film; nell’elaborazione di questa idea, improvvisamente e quasi all’unisono, Gigi ed io ci siamo detto: “questa città c’è già ed è Pompei” che tra l’altro è la Roma più conosciuta nel mondo. Su questa idea ho lavorato per rendere la location abitabile ed “abitata” facendomi aiutare dai bravissimi artigiani e tecnici di Cinecittà. Angelo Zamboni, non per nulla veneziano, figlio di Tintoretto e di Tiziano (proprio come me) mi ha ricreato pareti affrescati dai colori in perfetto stile pompeiano ma, per rimanere in tema, un po’ fanè. E quindi con grande divertimento di tutti e, lo confesso, con mio non celato compiacimento cedevamo i turisti (all’epoca giravano molti giapponesi) che fotografavano le nostre false pitture “autentiche” come le altre. Per il costume e l’arredamento mi sono adeguata allo sfondo che avevo ricreato. Come diceva Pietro Gherardi, un grande scenografo e costumista del nostro cinema, il film è come un affresco: è risibile che un artista concepisca e dipinga un paesaggio e un altro, anche se della stessa scuola, vi inserisca e dipinga i personaggi da lui stesso concepiti; diventerà comunque un ibrido di mani diverse. 

Così ho espresso i costumi e l’arredamento adeguandomi a quei colori che il Vesuvio ed il tempo mi avevano offerti, facendo diventare Pompei un’opera d’arte di una unicità belle straordinarie. I miei colori li ho rubati a quella natura: allegri ma mai violenti e un po’ stinti: per le stoffe ho adoperato tessuti che sembravano fatti al telaio forti e morbidi alcuni li ho realizzati e tinti grazie all’opera degli artigiani della sartoria Tirelli. Le attrezzature di scena: le corazze, le armi, le piccole costruzioni, le lanterne, gli specchi, li ho trovati, manipolati ed adeguati grazie all’immensa offerta dell’attrezzeria Rancati e al lavoro dei suoi operai. Non ho usato orpelli e gioielli: mi sono attenuta ad un’essenzialità fatta solo di toni fusi tra loro. Anche per gli abiti delle donne, pur attenendomi rigorosamente all’epoca, ho adoperato stoffe leggermente plissè, cadenti sul corpo e sfrondate da ogni panneggio ingombrante, dai colori tenui e comunque leggermente sbiaditi. Mai il nero e mai il bianco; quest’ultimo semmai, abbassato di tono. Solo Emilia, nella scena con Scipione accovacciato su una pietra in campagna è tutta bianca, candida: è il personaggio chiave della storia che, alla fine, apre gli occhi a Scipione: sei fastidioso gli dice perché troppo grande ed incorruttibile. Un altro film, dove ha potuto dar sfogo alla sua creatività e alla sua fantasia è stata La Tosca, Magni e Trovajoli con una intuizione geniale trasformano l’opera di Puccini in una commedia tragicomica romanesca col sapore del musicol e a Lucia tocca il compito di ambientare e vestire questa insolita lettura di una delle più celebri storie romane. Lo fa come sempre compiendo una dettagliata ricerca storica che l’ha portata alla creazione degli abiti realizzati dalla Tirelli, la ricerca dei luoghi fu naturale alcuni sono quelli originali della storia altri sono stati avvicinati come la Chiesa di Sant’Agnese in Agone che sostituì quella di Sant’Andrea della Valle.  In un contributo scritto per il volume “Il mondo di Luigi Magni “ curato da Montini e Spilla Lucia stessa racconta ancora del suo lavoro :

“Il doppio, reciproco impegno privato e professionale non ha mai prodotto problemi anzi, dal mio punto di vista, ha facilitato e agevolato il mio lavoro. Il fatto che il film nasca in casa, mi permette di seguirlo fin dalla prima idea. Ancora prima che esista una sceneggiatura o un soggetto scritto, con Gigi cominciamo a parlarne: ci confrontiamo sugli attori, sulle ambientazioni sullo stile da individuare.  Quando ci siamo conosciuti io già lavoravo nel cinema, mentre Gigi era controllore del traffico aereo a Ciampino: insomma la nostra intesa è stata prima privata e successivamente professio-nale.  Con Gigi ho iniziato a lavorare nei caroselli: lui scriveva le sceneggiature ed io disegnavo scene e costumi. Quando ha cominciato a fare il regista è stato assolutamente naturale seguirlo sul set. Per un certo tempo ho continuato a svolgere la mia attività con altri registi, ma, un poco alla volta, e senza rimpianti, mi sono dedicata completamente a lui e al suo cinema. Quando si è abituati ad avere un regista, con il quale ci si capisce con uno sguardo è difficile lavorare con altri. Partendo da quest’ottica, la realizzazione di un film diventa sempre un momento di intenso piacere, perché si viaggia insieme alla ricerca delle locations, ci si documenta si scambiamo continuamente opinioni: insomma si intensifi-ca il dialogo non solo fra regista e scenografa ma anche tra marito e moglie. Soprattutto per i film ambientati nell’Ottocento, che sono poi la maggior parte di quelli realizzati da Gigi, le principali fonti d’ispirazione per la documentazione sono la pittura e le stampe d’epoca. Personalmente non amo molto i musei: preferisco utilizzare delle buone riproduzioni sui libri che posso consultare senza limiti di tempo e senza fastidio del pubblico. Per In nome del Popolo Sovrano ricordo che un giornalista fece un elenco completo di tutti i pittori e i singoli quadri ai quali mi ero ispirata. La cosa mi divertì molto e mi fece anche molto piacere. A seconda dei film il mio impegno come scenografa più che sul versante storico realistico è stato, al contrario, su quello leggendario fantastico. Solitamente nei film di ambientazione più moderna prevale il realismo. Nei film ambientati in epoche più lontane la fantasia. Scipione detto anche l’Africano fu girato in buona parte fra le rovine di Pompei utilizzando sia ruderi veri, sia scenografie originali.

Ricordo, in particolare l’ottimo lavoro fatto da Angelo Zambon, un pittore veneziano capace di rifare gli affreschi in perfetto stile antico romano. Come avvenne per le scene a Villa Ada dove inventammo un giardino romano alle propaggini del foro. Riempimmo lo spazio di ruderi di polistirolo e resina. Un giorno capitò sul set un familiare dei Savoia e mostrò ad un amico che era con lui la bellezza di quei ruderi millenari ma provenienti dagli studi di scenoplastica di Maggi e De Angelis.  Il lavoro più bello -continua la Signora Mirisola- è stato quello per Secondo Ponzio Pilato. Nell’occasione ricostruimmo la reggia di Erode, la casa di Pilato e un’infinità di altri interni, mescolando lo stile romano a quello meridionale, traendo spunto dalla pittura degli orientalisti che mi è congeniale in quanto veneziana. Qualche volta abbiamo barato: ad esempio gran parte delle sequenze in esterni de “In nome del Papa Re”, ambientato a Roma, sono state girate a Montepulciano e Pienza. Una scelta dovuta alla difficoltà di girare in una città sommersa dal traffico,dai rumori dalla presenza costante di elementi moderni.

Ma nessuno se ne è accorto, anche perché gli architetti toscani di queste piccole città sono gli stessi che hanno lavorato a Roma al servizio dei Papi: dal Sangallo, al Rossellino, a Baldassare Peruzzi. Ricordo che un amico mi chiese dove si trovava una certa piazzetta: gli risposi che era situata dietro la chiesa di S. Andrea della Valle e lui convinto replicò: “E’ vero ora ricordo benissimo”. Lavorare nel cinema diventa di giorno in giorno più difficile, sia per la progressiva povertà delle produzioni, sia per la scomparsa di tutta una serie di attrezzerie, magazzini depositi, dove si poteva trovare di tutto, dal mobilio antico – romano alla lampada futuribile. 

Ma, accanto a Magni non ho perso l’entusiasmo ancora oggi. Accade spesso che di notte mi svegli con delle idee nuove su un certo film che stiamo realizzando e, non resistendo alla tentazione di coinvolgere Gigi nelle mie elucubrazioni, lo risveglio bruscamente. Questo piacere del lavoro è anche la cosa più bella e vitale di ogni altra, preferibile perfino ai premi e ai riconoscimenti che pure, è inutile negarlo, sono piacevoli e gratificanti. Il mio lavoro di costumista è abbastanza simile alla ricostruzione scenografica.  Una volta decisi sulla sceneggiatura l’ambientazione e lo stile pittorico o fantastico cui ispirarci. Io, più che dai bozzetti preferisco partire dalla ricerca dei materiali “da costruzione” per i miei costumi: tessuti preziosi o non, pizzi ed elementi decorativi di qualunque provenienza, dai mercatini dell’usato agli avanzi di magazzino, alle case di moda più prestigiose. Su questo eclettico e prezioso bottino costruisco elaborando i miei costumi e il bozzetto viene fuori miracolosamente “dopo”. Ma soprattutto mi piace giocare con il colore. E sono convinta che scenografie e costumi siano complementari. Come dovessi dipingere un quadro laddove il costume è parte integrante della scena.” 

La sinergia tra Gigi e Lucia, ha dato vita ad opere che hanno segnato un capitolo nella storia del modo di fare cinema storico in Italia. Lucia si spegne il 23 Dicembre del 2017 a Roma ed è sepolta accanto al suo Gigi nel cimitero del Verano a Roma. Sulla loro tomba a ricordare il loro legame con la città eterna veglia l’arcangelo San Michele riproduzione fedele di quello di Raffaello da Montelupo oggi nel cortile detto delle palle di Castel S. Angelo.  San Michele era molto caro a Lucia tanto che conservava gelosamente una riproduzione scenografica del citato angelo di Raffaello da Montelupo usata nel film “La Tosca” da questa il maestro Adriano De Angelis ha tratto quella che è posta come abbiamo detto sulla loro tomba al Verano.

 

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